Le parole della liturgia | Febbraio 2024

L’omelia

Dopo le letture segue l’omelia. Il Messale precisa: «L’omelia di solito sia tenuta personalmente dal sacerdote celebrante. Talvolta, potrà essere da lui affidata a un sacerdote concelebrante e, secondo l’opportunità, anche al diacono; mai però a un laico» (OGMR n. 66). È un atto liturgico che compete ad un ministro ordinato: dovrebbe essere il conversare amorevole del pastore con il suo gregge. Essa deve aiutarci a togliere il velo dai nostri occhi per riconoscere la perenne giovinezza della Parola di Dio, sempre viva ed efficace. Per questo deve essere breve, piena di afflato, poetica, lirica, perché appartiene alla liturgia: non è un momento catechistico o formativo. Proporre una sorta di omelia partecipata, vuol dire snaturare l’omelia stessa. La Messa non ricorda qualcosa che il tempo ha relegato in un passato confinato alle nostre spalle. Non è un insieme di riti privi di vita e incapaci di comunicare salvezza. Non si tratta di ritrovarsi insieme tra convenuti che condividono un ideale, conversando insieme sulla fede. La Messa non è il luogo per scambiarsi le idee, ma il suo fine è solo quello di celebrare il Mistero pasquale. Inoltre, l’omelia deve essere pronunciata dall’ambone, perché è dalla tomba vuota che parte l’annuncio della salvezza. Essa sarà tanto più efficace quanto più le parole sapranno riflettere quelle del Signore; tanto più vera quanto più colui che la tiene saprà scomparire sotto la luce del Risorto, perché ognuno pensi, cerchi, ami solo il Signore Gesù Cristo, non la sapienza o la cultura di questo bravo sacerdote o diacono. La beata Elisabetta della Trinità diceva: «Voglio che vedendomi si pensi a Dio». Questo deve essere l’unico desiderio di ogni cristiano, laico o presbitero: che vedendoci o ascoltandoci le persone abbiano nostalgia di Dio.

Elide Siviero