Le parole della liturgia | Settembre 2022

L’atto penitenziale

L’atto penitenziale ha uno scopo più ecclesiale che individuale: non è un esame di coscienza, ma vuole indicarci l’atteggiamento con il quale la Chiesa si pone davanti al suo Signore proclamando la propria debolezza e fragilità. Il presbitero invita i fedeli al pentimento, non all’esame di coscienza, e l’atto penitenziale si attua in quel silenzio che si crea dopo l’invito del sacerdote. È lo spazio in cui si genera la relazione personale ed ecclesiale con il Risorto. Riconoscere il peccato è riconoscere il male, ma guardando il Risorto.

Le preghiere pronunciate dal sacerdote e dall’assemblea non sono l’atto penitenziale: ciò che lo costituisce ed è fondamentale è quello spazio di silenzio che permette di prendere coscienza della nostra fragilità di peccatori. Non ci sarebbe niente di più sbagliato di pensare che in quel momento noi dobbiamo riconoscere le nostre colpe personali o comunitarie. Non dobbiamo guardare ai singoli peccati. Non è questo il luogo. Quello è l’esame di coscienza che si riserva al sacramento della Penitenza, non all’atto penitenziale.

Le modalità con le quali si può celebrare questo rito sono tre: il Confiteor «Confesso a Dio Onnipotente…»; oppure la forma dialogata: «Pietà di noi Signore. Contro di te abbiamo peccato…»; o il cosiddetto Kyrie tropato (da tropos che in greco vuol dire “introduzione a…”): «Signore mandato dal Padre… Kyrie, eléison…». È soprattutto questa formula che ha ingenerato il falso ideale di un atto penitenziale autoaccusatorio. In realtà, se noi guardiamo come il Messale propone questa tipologia, vediamo che non ha nulla di intimistico. Lo schema è sempre lo stesso: guardare la santità di Cristo e riconoscere la propria indegnità. Tutto questo è generato dalla fede: la Liturgia ci dà degli spazi divini perché ciò possa avvenire.

Elide Siviero